75° Anniversario dell’Operazione Husky: per non dimenticare
di Michele Bellavia
Sono passati settantacinque anni dal 10 luglio 1943, data dello sbarco in Sicilia delle truppe anglo-americane. È stata la prima grande operazione anfibia messa in atto dagli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale.
Codificata come “Operazione Husky”, essa comportò uno sforzo logistico enorme, e richiese una pianificazione anche maggiore di quella che, in seguito, avrebbe richiesto il “Piano Overlord”, ovvero, lo sbarco sulle coste francesi della Normandia il 6 giugno del 1944.
LO SCENARIO — Dopo aver vinto in Nord-Africa, gli Alleati volsero lo sguardo alla “Fortezza Europa”. La Sicilia, in particolare, costituiva un obiettivo “naturale” la cui conquista avrebbe garantito sia il controllo totale sul Mediterraneo, che l’indebolimento “politico” dell’Asse, spingendo l’alleato italiano alla resa e alla conseguente uscita dal conflitto.
Sul versante opposto, tuttavia, anche le potenze dell’Asse erano consapevoli della sua importanza strategica, e tra il 1942 e il 1943 l’isola fu rinforzata, ampliando il sistema di fortificazioni esistente, con la costruzione di casematte. Nei mesi antecedenti lo sbarco, a presidio dell’isola vi erano dieci divisioni italiane (4 di fanteria e 6 costiere per un totale di circa 250.000 uomini), rinforzate da due divisioni tedesche (circa 70.000 uomini). Il supporto aereo era garantito da circa 500 velivoli (300 in quota alla Regia Aeronautica e i rimanenti appartenenti alla Luftwaffe), mentre quello navale era rappresentato da sommergibili e piccole unità costiere.
L’ATTACCO — Il primo tassello posto per l’operazione, fu l’attacco condotto contro l’isola di Pantelleria che l’11 giugno cadde, dopo essere stata violentemente bombardata (oltre 6000 tonnellate di bombe sulla piccola isola in meno di un mese).
Il 9 luglio scattò la prima fase del piano Husky con il lancio dei paracadutisti (1.500 della 1^ Divisione Aviotrasportata Inglese e 3.400 dell’82^ Aviotrasportata Americana) dietro le linee nemiche. Alle 2 e 45 del 10 luglio scattò l’ora H del D-Day: precedute dal fuoco navale, due armate, di circa 180.000 uomini (la 7^ americana guidata dal Generale George Smith Patton, e l’8^ inglese guidata dal Generale Bernard Law Montgomery), sbarcarono rispettivamente nella parte sud-occidentale (Licata, Gela e Scoglitti) e in quella sud-orientale dell’isola (Golfo di Noto).
LA CAMPAGNA — L’imponente cannoneggiamento navale e la sorpresa garantirono la riuscita delle operazioni di sbarco. Il contrattacco più violento ebbe luogo l’11 luglio nel settore di Gela, dove le truppe italo-tedesche misero seriamente in difficoltà gli attaccanti al punto che Patton diede l’ordine di reimbarco, ma grazie al fuoco dell’incrociatore Savannah, poté respingere i difensori, e consolidare la testa di sbarco. In generale, i contrattacchi e la resistenza occasionale furono una costante di tutta la campagna che giunse all’epilogo il 16 agosto con l’ingresso delle truppe anglo-americane a Messina.
Nel frattempo, buona parte del contingente italo-tedesco era riuscito a varcare lo stretto (quasi 100.000 uomini) e a raggiungere la penisola, circostanza che contribuì a mettere in chiaroscuro il bilancio finale della vittoria alleata, senza contare il fatto che, per la prima volta, emersero forti contrasti (ma si trattò di laceranti rivalità) tra i due comandanti Patton e Montgomery.
CONSIDERAZIONI — Sugli avvenimenti di quel tragico luglio del ’43, si è scritto e detto molto; ma occorre precisare che, solamente in anni recenti, è riaffiorata una memoria più approfondita e consapevole.
Sì perché, per molto tempo, la campagna militare in Sicilia è stata erroneamente dipinta come una conquista “facile” per mano degli Alleati che attraversarono l’isola, di città in città, tra ali festanti di folla.
Al di là degli eventi che si susseguirono in quel luglio del ’43 – la caduta del fascismo e di lì a poco l’armistizio – sia il Regio Esercito (su tutti la divisione Livorno e alcuni reparti mobili come i bersaglieri) che la Regia Aeronautica si batterono con coraggio, ben oltre le proprie capacità.
Oltre a ciò, non va dimenticato l’enorme tributo di sangue che i siciliani pagarono a causa dei bombardamenti subiti precedentemente e successivamente l’inizio dell’operazione militare vera e propria.
AFTER THE BATTLE — Cosa resta oggi del campo di battaglia? La testimonianza tangibile di quegli avvenimenti è rappresentata innanzitutto dai numerosi cimiteri militari siti in varie parti della regione, dai sacrari dei caduti italiani e dalle tante lapidi poste a ricordo di quanti combatterono e sacrificarono la propria vita. Poi ci sono i bunker, molti dei quali ancora in perfetto stato di conservazione e anch’essi sparsi su tutta l’isola.
Ad ogni modo, nel contesto di questa ricorrenza, che deve essere e rimanere una memoria condivisa, priva di rivendicazioni di una parte contro l’altra, qualcosa in questi anni si è mosso: nel 2000 è stato finalmente realizzato un museo dello sbarco a Catania; sono nate molte associazioni di appassionati e rievocatori storici e si è proceduto al recupero e alla conservazione delle fortificazioni presenti in tutta l’isola.
È notizia di qualche giorno fa, infatti, l’approvazione, da parte dell’Assemblea Regionale Siciliana, del disegno di legge per la valorizzazione del patrimonio storico culturale dei siti legati alla Seconda Guerra Mondiale in Sicilia. È auspicabile che tutto ciò contribuisca a incentivare e promuovere sempre di più iniziative legate al ricordo di quegli eventi, sul modello di quanto già avviene in altre parti d’Europa.
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